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Daniele Segre, autore di “cinema della realtà”, di film di finzione e di spettacoli teatrali e radiofonici, in collaborazione con il cineforum di Imperia, giovedì 27 marzo 2008 ha presentato Morire di Lavoro un pugno nello stomaco che rivela l’ipocrisia del tempo in cui viviamo e anche la codardia di chi gestisce il servizio pubblico. Uno spaccato d’Italia che documenta un paese senza un confine etico che garantisce il rispetto della dignità delle persone. Il lavoro come principio cardine di una vita, di una famiglia, di uno Stato. Manifesto di un viaggiatore che osserva il suo paese e sostiene:
“Siamo tutti complici di questo degrado!”

Quanto teoricamente dovrebbero incidere i suoi prodotti?
Intanto credo che la funzione primaria sia l’utilità di questo cinema. Offrire degli spunti di riflessione e quindi riattiavare la capacità di intendere e di volere degli spettatori (detto in modo provocatorio).
Qualcosa che dia occasione di prendere il contatto con la realtà recuperare il linguaggio filmico inteso come tale e non più inquinato da linguaggio televisivo che reprime in generale il rispetto delle persone.
Dare un impulso in una direzione educativa. Sicuramente il cinema è uno strumento strategico e come tale deve essere usato. Altrimenti siamo totalmente subalterni di uno strumento potentissimo che ci può condizionare a fare ciò che non vogliamo.

Lei nasce come fotografo. Considera lo strumento cinematografico più efficace?
All’ inizio usavo il mezzo fotografico. Successivamente ho sentito l’esigenza di andare oltre la fotografia e quindi la cinepresa e poi la telecamera sono stati strumenti ottimali per verificare quello che avevo voglia di dire. Diciamo che io non avevo esaurito la mia necessità espressiva attraverso la fotografia, però sentivo altre urgenze che la fotografia non poteva assolvere completamente, e nella macchina da presa ho trovato un approdo che mi ha aiutato molto a trovare il senso di una mia identità espressiva.

Quindi detto questo non può arrivare lo stesso messaggio attraverso i diversi mezzi?
Assolutamente sì. Diciamo che ci sono forme e linguaggio diversi della rappresentazione in questo caso del reale, e per quello che mi riguarda la macchina da presa è stato un assumere uno strumento più potente per poter osservare, documentare, raccontare ed esprimere un pensiero.
Cosa che facevo anche con la fotografia, però il cinema mi ha dato qualcosa in più rispetto alle mie esigenze. La fotografia è al pari se non addirittura di più per alcune possibilità che può avere.
Dipende dalla storia di ognuno.

Riguardo il lavoro di stasera il messaggio è fondamentale?
Non c’ è messaggio! Il termine messaggio deve essere allontanato da qualsiasi ipotesi immaginaria. C’è una proposta di riflessione: è lo spettatore che deve valutare da che parte stare e cosa pensare. Sarei un cattivo regista se avessi il condizionamento del messaggio. Io dichiaratamente so da che parte sto.
E’ chiaro che quando dò diritto di parola ai lavoratori o ai familiari dei lavoratori, restituisco un pezzo di dignità che è negata tutti i giorni nei luoghi di lavoro. Il senso del pensiero che esprimono i protagonisti nel film è quello su cui deve riflettere lo spettatore senza essere condizionato.

Premesso questo, lei si fa problemi di stile? E’ importante la metodologia?
Sono due cose diverse: la metodologia è la disciplina con la quale ti costruisci le condizioni per ottenere un risultato. Io non vivo per fare un film, non ho nei progetti il film della mia vita. Per me il cinema è un progetto di vita, mi uso del cinema per dire quello che penso.La tecnica è necessaria fino ad un certo punto, io prediligo altre questioni che sono prioritarie per definire quello che io voglio dire. Poi lo stile viene di conseguenza in base a come lo vuoi dire. Cosa vuoi dire e come lo vuoi dire, questo è determinante nel definire poi una metodologia di ricerca che ti permette di individuare gli obiettivi e possibilmente di raggiungerli. Perché se non fai non sei.
Devi fare per essere. Bisogna avere chiarezza di cosa si vuol fare della propria vita a 15 come a 89 anni, è una questione di convinzione per determinare un’azione che produce dei fatti. Specialmente in un tempo in cui è importante essere. Sapere da che parte sei, come usi il tuo cervello, in questo caso riflettere su me stesso e sul senso della mia vita, capire perché guardo certe cose piuttosto che altre.
E dall’altra una funzione di utilità pubblica: il cinema è uno strumento culturale che può essere usato per la liberazione, l’emancipazione e l’elevazione della dignità ad una condizione di diritto normale, come dovrebbe essere scontato, ma in realtà i diritti non sono eterni, e quello che pensi di aver acquisito in realtà il giorno dopo viene messo in discussione.

Lei non si ritrova nel termine documentario. Per quale motivo?
Credo che il cinema sia una disciplina trasversale che può occupare sia la realtà che la finzione, ma è una cosa sola: Il prodotto filmico deve essere valutato per la sua capacità di avere un’identità e un senso. Non faccio differenza tra cinema della realtà che della finzione. L’importante è avere qualcosa di dire e il modo nel quale lo dici. Io mi occupo prevalentemente di cinema della realtà, ma anche della finzione.
Ho lavorato anche in teatro. La mia libertà è direttamente proporzionale alla mia capacità di movimento che mi dà quella autonomia di decidere dove andare. Dipende la causale che mi motiva a partire: se quella è forte e tu hai dei riscontri di corrispondenza sul piano della riflessione è fatta. Ovviamente non è così facile. Ci sono dei livelli su cui puoi misurare la tua capacità di azione e intanto l’essere indipendente, condizione dell’essere che determina la sua voglia di potersi esprimere malgrado i condizionamenti di tipo economico che può avere questo mezzo che comunque costa. Io non sono ricco e quindi mi devo confrontare in prima battuta con questa questione. Però sinceramente è l’ultimo dei problemi per me perché è molto più importante sapere quello che vuoi e come lo vuoi. Le tecnologie aiutano a ridurre un sacco di costi. Ma il prezzo più alto è il prezzo sociale che paghi per garantirti la tua libertà ed è solitudine, emarginazione, e quindi hai la possibilità di temprare la validità della tua convinzione.
O ci credi o lasci perdere, ma io non sono il tipo da abbassare la testa. Non mollo, ho un motivo in più per andare fino in fondo

Ha avuto degli aiuti a livello economico?
Chi fa cinema non è mai da solo, c’è una squadra dietro, delle figure professionali che possono metterti in grado di ottenere il risultato che vuoi. Il prodotto malgrado le poche risorse deve essere all’ altezza e di qualità superiore agli altri che sono costati 100 volte. Questa è la soglia della sfida Se hai una 500 che deve viaggiare come una Ferrari poi sono cavoli tuoi vedere come tenere attaccate le pareti della carrozzeria che magari non sono abituate. In questo caso il film per il quale son qui oggi non ha avuto aiuto da nessuno, un sostegno da parte del Piemonte che però non è ancora arrivato, e il film è già stato presentato. Non è un problema, può succedere, ormai sono 30 anni che faccio questo mestiere.
Sono abituato. Inizialmente mi avrebbe deteriorato perché su quei soldi, anche pochi, uno ci conta non avendone, ma educato alla resistenza arriveranno quando non ne ho più bisogno. E faranno comodo comunque, bisogna solo attrezzarsi a sapere che alla fine del mese c’ è da pagare affitto e bollette.

Pamela Pepiciello, Davide Ponchione, Roberta Francaviglia
(ArtWhere - L'Eco della Riviera)

Altra risorsa: La video-intervista
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