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Lunedì 17 Novembre Ore 16:15 - 20:15 - 22:30
NEBRASKA
(USA 2013) di Alexander Payne – dur. 115’
Con Bruce Dern, Will Forte, Bob Odenkirk, June Squibb, Stacy Keach
Woody Grant, un vecchio scontroso e amareggiato, si convince di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Il figlio David non riesce a convincerlo che in realtà si tratta di un banale trucco pubblicitario e quando capisce che il padre ha intenzione di recarsi a piedi a Lincoln, nel Nebraska, per incassare i soldi, non gli resta altra scelta che assecondarlo e andare con lui in automobile.

Premi:
Vincitore di 40 premi internazionali (più 111 nomination) tra cui 6 nomination all'Oscar (Film, Attore protagonista, Attrice non protagonista, Fotografia, Regia, Sceneggiatura)
5 nomination ai Golden Globes (Film, Attore protagonista, Attrice non protagonista, Regia, Sceneggiatura) e premio per il Miglior Attore (Bruce Dern) al Festival di Cannes.

Così la critica:
Giona A. Nazzaro (Film TV)
Sospeso fra echi agrodolci di commedia all’italiana (si pensa a Comencini e Monicelli) e, inevitabile, “Una storia vera” di David Lynch, “Nebraska” si rivela essere il miglior lavoro di un cineasta sin qui discontinuo. Dinoccolato e preciso come la camminata di Dern (l’unica risposta possibile a quelle proverbiali del nostro Servillo) il film coglie con grande attenzione ciò che resta di una provincia una volta saldamente operaia, oggi dimenticata dalla crisi finanziaria. (...) Payne con “Nebraska”, opera essenziale e senza sbavature, precisa nei tempi e attenta alla composizione dello spazio, trova una felicità espressiva che sin qui gli era sempre sfuggita.

Paolo Cherchi Usai (Segnocinema)
Un laconico road movie baciato dalla rara bellezza del Cinemascope in bianco e nero, in costante equilibrio fra commedia, dramma intimista e caustico ritratto di una società marginale. Il centro-nord degli Stati Uniti, dove tutto è piatto, la gente parla poco e gli inverni sono spietatamente monocromi. Si respira aria di Preston Sturges, ed è chiaro che Payne s’ispira al cinema americano classico, a quella economia di eloquio che trasforma le piccole storie in poemi epici. Non è nostalgia, è sobrietà.

ALEXANDER PAYNE - Omaha (Nebraska, Stati Uniti), 1961
«Payne ci racconta l'America e le persone che la abitano; non l'America che ci è stata restituita dall'immaginario hollywoodiano prima e poi quella dei reietti, dei marginali e dei drop out che ci ha consegnato il cinema indie dal '68 in poi, ma quella della provincia benestante, del Grande Ovest, della classe media, dei tanti volti anonimi che i cineasti statunitensi preferiscono ignorare» (Termenini, Cineforum). Payne studia letteratura spagnola alla Stanford University e poi passa alla UCLA per seguire i corsi di cinema, ottenendo un M.F.A. in filmmaking. Payne fin dagli esordi segue la strada di un cinema perfido che faccia suoi i moduli della commedia scolastica o familiare sovvertendone i meccanismi più rassicuranti in favore di una visione acre della vita statunitense. L’esordio avviene nel 1996 con “La storia di Ruth - Donna americana”, storia di una tossicomane sbandata e tenera, accusata dai giudici di nuocere al suo feto. Il successivo “Election” (1998, l’arrivismo politico già presente nelle elezioni all’interno di un liceo) «si dà da fare per spazzare via ogni residuo di correttezza ideologica» (Menarini). «Morde, graffia, non risparmia nulla e nessuno, non predica e diverte con intelligenza» (Morandini). Nel 2002 dirige Jack Nicholson in “A proposito di Schmidt” (Golden Globe per la migliore sceneggiatura), un film sulla vecchiaia e sull'inesorabile avvicinarsi della morte. “Sideways” (2004), è un film «sopravvalutato, un esercizio di stile languido e senza furore» (Piacenza, CdSera). «Perfettamente calibrato tra il dramma e la commedia», il successivo “The Descendants” (2011) «è una pellicola di rivelazioni successive e conseguenti consapevolezze, in cui i toni tragici sono tagliati con una sfacciata ironia e uno sguardo sempre pronto all'attenuazione dell'eccesso» (Frasca, Cineforum). Dopo un episodio del film collettivo “Paris, je t'aime” Payne torna con “Paradiso amaro” (2011) a toccare i temi della commedia agrodolce nella storia di un uomo di mezza età (Clooney) che si ritrova improvvisamente senza moglie e con due figlie che non conosce più.

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